Il «De profundis» per pellegrini e Volontari
DAL PROFONDO A TE GRIDO, O SIGNORE
I Volontari della Sindone iniziarono il loro servizio con l’ostensione del 1978. Sono poi «cresciuti» per le ostensioni del 1998 e le successive. Il grande numero, la passione per il Telo hanno fornito anche un’occasione di formazione, un’opportunità di «comunicare la Sindone» che don Ghiberti aveva raccolto fin dall’inizio. Ai Volontari è dedicata questa serie di meditazioni sul Salmo 130. Don Ghiberti le presentò così: «Alla ricerca di preghiere corrispondenti alla situazione del pellegrino, che guarda l’immagine sindonica, e del crocifisso, abbandonato nella sepoltura e che ti guarda attraverso l’immagine sindonica, non se ne era trovata una più adatta del Salmo 130. Fu indicata ai volontari e molti ne hanno fatto una preghiera familiare, quasi preghiera del cuore.
1 – Dal profondo a te grido
È possibile pregare con Sindone? Se ci riportiamo con la memoria ai giorni dell’ostensione, rivediamo le lunghissime file di pellegrini: quando giungevano davanti a quell’immagine benedetta, il loro atteggiamento diventava raccolto, pieno di commozione e di fervore. Credo che indoviniamo l’intenzione del Signore se diciamo che la Sindone ci è stata data anzitutto per aiutarci a pregare.
Possiamo allora fare di tanto in tanto (l’ideale sarebbe una volta al giorno) questo esercizio: prendiamo un’immagine sindonica, anche solo piccola, di un particolare, e impegniamoci per un tempo di preghiera proporzionato alla possibilità del momento.
Ci possono essere di aiuto preghiere brevi o lunghe, trasmesse al nostro tempo da una lunga tradizione di preghiera. Le più belle le troviamo nella Sacra Scrittura, perché sono ispirate, provengono dal cuore stesso di Dio. Un intero libro della Bibbia è libro di preghiera, quello dei Salmi. Ci eravamo prefissati di incominciare con il Salmo 130 (129 nel salterio greco e latino), il De profundis.
Chi prega nei salmi? Anzitutto il popolo ebraico; all’interno del suo popolo, il figlio più caro dato da Dio all’umanità, proprio attraverso quel popolo, Gesù. Dopo Gesù e con Gesù (e quindi con il suo popolo) pregano i salmi la Chiesa e ognuno di noi. Nella nostra povera preghiera viene dunque a confluire tutta la storia preziosa della preghiera di tanti oranti, in particolare quella del grande Orante, il Figlio nel quale il Padre ha posto tutta la sua tenerezza e il suo compiacimento.
Dal profondo a te grido, o Signore. È difficile dire in quale circostanza sia nata e sia stata recitata per la prima volta questa preghiera. Si pensa che gli Ebrei la usassero quando si formavano i cortei per andare a Gerusalemme e poi salire al tempio: dunque un ‘canto del pellegrinaggio’ o ‘delle ascensioni’, come dice lo stesso titolo presente nel salterio. Ci sentiamo dunque uniti alle schiere di pellegrini che salivano al tempio, assieme a Gesù, che lo recitava anche lui mentre si univa a tutti i suoi fratelli salendo all’amatissimo tempio, luogo di incontro privilegiato con il Padre. E ci sentiamo uniti anche a tutti coloro che intraprendono un pellegrinaggio, chiedendo a Dio che ci venga concessa una maggiore vicinanza con lui.
Il salmo incomincia con una invocazione accorata, che sorge dalla consapevolezza di una condizione terribile. Ma come può sentirsi ‘nel profondo’ chi sta salendo verso il Signore? Si può intendere: «dal profondo della mia anima», cioè dalla parte più intima e autentica di me stesso. Ma qui è detto piuttosto «dal profondo della mia situazione», dalla quale non riesco a liberarmi, come quando si è caduti in un baratro o in un pozzo dalle pareti altissime. È una situazione sconsolata, senza prospettive di soluzione.
Subito dopo si parla di ‘colpa’ e di fiducia nel perdono. Dunque è una situazione di peccato, quella in cui si trova il pellegrino. Egli ha avuto l’ardire di avviarsi verso il Signore, ma ora che il suo cammino sta per giungere alla conclusione, si rende conto che la sua condizione non gli permette tanto ardire. Subentra allora l’angoscia, per un rapporto che è stato distrutto e che l’uomo non riesce più a ricostruire.
Guardando l’immagine sindonica, sorge spontanea la domanda: «Ma Lui in che cosa aveva mancato? Come poteva dire: Dal profondo?». Eppure lì, dove egli giace, nell’immobilità della morte e del sepolcro, egli si trova veramente nel profondo: tanto profondo, che la condizione umana non conosce nulla di più radicale. È accaduto che chi si è fatto solidale con l’uomo si è sottoposto alle conseguenze del peccato ed è giunto fino al ‘profondo’, all’estremo dell’annullamento.
2 – Presso di te è il perdono
Le lunghe file di pellegrini si snodano nella salita verso le porte della città santa e l’ingresso del tempio. Cresce l’entusiasmo e cresce l’agitazione per l’avvicinarsi del grande momento in cui l’esperienza di Dio si farà quasi tangibile. Ma è un grande Dio quello verso il quale il pellegrino osa alzare lo sguardo: la sua grandezza si è manifestata nello scegliere il popolo più piccolo della terra, nel farlo suo nell’intimità di un rapporto privilegiato e fedelissimo. In questo lungo dialogo, tribolato per le infedeltà del popolo, Dio ha manifestato poco per volta le caratteristiche più importanti della sua natura: egli è non solo il più grande di tutti gli dei, ma è l’unico Dio, il Dio vivo e vero (mentre gli altri sono bugiardi e senza vita), il Dio della giustizia, dell’amore e del perdono. Quando parla di sé, egli va alla ricerca degli esempi più dolci dell’amore umano, per far comprendere che il suo amore è tenerissimo e senza limiti: egli è premuroso più di un padre e di una madre, tenero e trepido come uno sposo, ha un cuore che desidera tanto essere riamato.
Ma come è riamato questo amore? Il pellegrino contempla la sua vita e lo sguardo, che era rivolto all’alto, si vela di tristezza e si abbassa lentamente verso terra. «Se le colpe tu guardi, Signore, Adonai, chi potrà stare a fronte alta nel tuo giudizio?». Egli non osa nemmeno numerarle, le sue colpe, tanto sente salire dentro di sé la consapevolezza di una vita incongruente e, con essa, la consapevolezza di essere nell’incapacità di porvi rimedio. Il suo rapporto con Dio e con gli uomini sta franando.
Qualcosa però gli impedisce di cadere nella disperazione. Egli sente, con la convinzione radicata nell’esperienza di un lungo rapporto, che precede addirittura la sua vita, che Dio non è giusto per punire ma per perdonare. Dio non transige nel chiamare bene ciò che è male, ma a colui che ha fatto il male egli continua a guardare con occhio affettuoso e a circondarlo d’una tenerezza così grande che dice solo: «Non importa il passato, ti voglio mio e io sono tuo». È l’offerta di una tenerezza che desidera solo di essere accettata e creduta.
Davanti all’immagine della Sindone il pellegrino prova gli stessi sentimenti e, insieme, avverte di non essere solo nella sua pena. Da quel telo lo fissa lo sguardo del sofferente che non ha colpe. Egli ha gli occhi chiusi, per non aggravare lo smarrimento di chi sta parlando con lui: è lo stile di Gesù, che non vuole accrescere l’angoscia del peccatore. Dalla sofferenza di quell’Uomo egli sente giungere una voce: «Non temere, ho già pagato io».
Che parola brutta, «pagato»! Eppure il male c’è, ha fatto soffrire, continua a fare soffrire, anche dopo che è stato riconosciuto e riprovato. Troppo spesso le situazioni si prolungano, al di là della possibilità di chi le ha causate. L’impotenza dell’uomo avverte che egli non riesce ad arrestare la frana che ha messa in movimento.
«Fatti coraggio, io ho già pagato»: ho preso su di me il male che tu hai fatto a Dio, senza renderti conto della sua enormità, e il male che hai fatto al fratello, con le conseguenze che vanno oltre i singoli atti. Ho presentato al Padre la mia volontà di fare sempre la sua volontà e gli ho chiesto per te la forza di compiere la sua volontà anche quando, proprio per colpa tua, essa sembra indecifrabile e irrealizzabile.
Davanti a Dio la colpa è distrutta, perché egli è «buono e grande nell’amore» (Sal 86,5) e perché il nostro Redentore intercede per noi; pure davanti ai fratelli intercede il nostro Redentore, e ci ottiene luce e forza per ristabilire la giustizia e l’amore.
3 – Il Signore redimerà Israele
Il pellegrino che sale all’incontro con Dio non è solo e le sue preoccupazioni non riguardano soltanto la sua persona. Egli appartiene a Israele e sente che Israele appartiene a lui, che egli ne è in qualche modo responsabile, che la sua vicenda si fonde con quella di Israele, dalla quale è inscindibile. E, attraverso Israele, a lui è legata la sorte del mondo intero.
Non di rado la preghiera del pio Ebreo passa dalla dimensione individuale all’interesse per Israele. Anche nelle preghiere di Maria e di Zaccaria, all’inizio del vangelo di Luca, si ricorda che il Signore «ha soccorso Israele suo servo» (1,54) e che «il Signore Dio di Israele… ha visitato e redento il suo popolo» (1,68), attraverso la missione dei suoi servi, come Maria e Giovanni il Battista.
Fa stupire che a volte il soccorso a Israele, la sua redenzione, venga descritta come già realizzata, mentre nella nostra preghiera se ne parla al futuro: ‘redimerà’. È però comprensibile nella situazione di colui che prega: ora egli sta sperimentando il male che è in lui e la necessità di soccorso in cui si dibatte tutto Israele, ma egli sa che presso il Signore è il perdono e si abbandona a lui con fiducia.
La fiducia è l’atteggiamento dominante di colui che sta parlando con Dio. Egli non pone condizioni al suo Signore, rimettendosi ai tempi e ai modi con cui egli vorrà esaudirlo. Si innesca così il clima dell’attesa, piena di speranza: «Io spero… l’anima mia spera… attende… Israele attenda». Non c’è omaggio più bello da offrire al Signore che quello di un’attesa che non cessa di invocare e al contempo rinuncia a vedersi immediatamente esaudita.
Lo sguardo del pellegrino torna a portarsi sulla Sindone per interrogare quel morto, l’innocente, che è stato schiacciato dal male del mondo. Egli è figlio di Israele e dal seno del suo popolo eleva a Dio la preghiera per le colpe del suo popolo e dell’umanità intera. Quando sarà esaudito? Al momento di lasciare la vita e di entrare nella condizione desolante della più radicale impotenza umana, egli pronuncia la parola del totale abbandono: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito» (Lc 23,46). Nessun essere umano potrà mai rendersi conto dell’esperienza vissuta da Gesù nel momento in cui egli cessa di essere se stesso e la scena sembra occupata sol più da quel peccato al quale la sua vita ha cercato continuamente di opporsi.
È il momento del dialogo estremo con il Padre. Gesù conserva la consapevolezza che il Padre esiste e che, nella misteriosità del suo agire, continua a essere colui del quale ci si può fidare. A lui egli affida il suo spirito, la vita che si sta spegnendo, la causa di una lotta che non è finita e che non finirà prima della conclusione della storia. Il successo che ora sembra radicalmente negato Dio lo concederà alla causa di Gesù, che è quella di Israele e di tutto il mondo.
4 – Più che le sentinelle verso l’aurora
Talora nei salmi si trovano figure così belle che ci perdiamo nel contemplarle. Il testo del Salmo 130, letto nella lingua originale, l’ebraico, al versetto 6 dice: «La mia anima verso il Signore – più che le sentinelle verso il mattino – le sentinelle verso il mattino». Se andiamo a sfogliare i libri con i commenti, troviamo suggerimenti che completano o modificano un po’ il testo. Ma esso è sufficientemente chiaro, e tanto bello. Dice poco, quanto basta solo per suggerire, e nella sua ripetizione dà andamento contemplativo alla preghiera.
Le sentinelle le incontri ai posti di guardia o in giro di ronda nelle vie della città addormentata e hanno un compito da svolgere: vegliare, vigilare per sventare ogni brutta sorpresa. Ma sentono il peso della notte, in cui non si può riposare e occorre far fronte a mille pericoli; attendono perciò che venga l’aurora, quando tornerà la vita normale, cesserà il pericolo e tutto sarà nuovamente gioioso.
Il clima di preghiera del De profundis è dominato all’inizio dalla consapevolezza della condizione di miseria in cui si trova il pellegrino, alla fine dalla convinzione che Dio interverrà a salvarlo. Fra il presente di indigenza e di colpa e il futuro di liberazione si instaura il tempo dell’attesa e della speranza.
La parola del Signore è il fondamento della speranza; la speranza anima l’attesa, orientando verso il Signore l’attenzione del peccatore e del bisognoso.
La tensione della speranza e dell’attesa è intensissima ed è vissuta nella vigilanza della sentinella, che non si vuole lasciare sorprendere dal sonno proprio nel momento in cui la pena sta per lasciare il posto alla gioia. La notte sta passando, ma le ultime ore sono le più pesanti, le più pericolose. E poi c’è quel buio, che non accenna a rischiarire e sembra farsi sempre più fitto.
Dopo, però, esplode la luce, la redenzione, la salvezza e le sentinelle non ricordano più quel che è passato.
Che cosa attendevano i pellegrini che cantavano il nostro salmo salendo al tempio? Che finisse la notte, che il Signore mostrasse il suo volto di misericordia, che si concedesse al dialogo con i suoi piccoli, pur tanto sconsiderati, cocciuti. Anch’essi – come nell’oracolo di Isaia (21,11) – si domandavano: «Quanto resta della notte?» e si sforzavano di non lesinare nella fiducia al loro Dio.
Gesù ha vissuto questo stato d’animo, pregando con il suo popolo e facendo l’esperienza dolorosissima della notte. Sembrò, in un certo momento, che la notte non avesse più regresso, non potesse più passare. Egli giaceva nel sepolcro e non era più uomo capace di avere esperienza alcuna. Nel momento però in cui si abbandonava alla morte, cedendo all’impotenza totale, egli diceva: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito» (Luca 23,46). Al Padre egli affidava il tempo e il modo del suo riscatto, della sua vittoria sulla notte.
Contemplando l’immagine della Sindone, il discepolo di Gesù è spinto a pronunciare la stessa parola di fiducia. La notte non dà segni di cedere alla luce: la notte che è dentro di noi e quella che sale attorno a noi e sembra soffocare le speranze. Eppure nulla giustifica un cedimento nella speranza né un cedimento nella vigilanza, su quanto accade in noi e quanto accade attorno a noi. I suoi interessi sono i nostri, i nostri sono i suoi, la sua forza è più grande che la nostra debolezza.
Giuseppe Ghiberti